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Aisha ha 25 anni. Era stata rapita dai miliziani di Boko Haram più di quattro anni fa e data un sposa a un comandante del gruppo terroristico. Tra i due, però, nasce qualcosa: il marito sommerge la giovane donna di attenzioni e le fa regali costosi. Nella foresta di Sambisa, Aisha era anche una donna rispettata: aveva diverse donne al suo servizio – giovani che come lei erano state rapite dai miliziani – e un forte ascendente sul marito, e gli altri leader di Boko Haram la trattavano con rispetto.
All’improvviso, nei primi mesi del 2016, a seguito di un’operazione dell’esercito nigeriano Aisha viene liberata. Segue per otto mesi in un programma di de-radicalizzazione dopodiché viene affidata nuovamente alla sua famiglia a Maiduguri, nel Nord-Ovest della Nigeria, una delle città più segnate dalla violenza degli islamisti. Ma dopo appena cinque mesi Aisha torna nella foresta di Sambisa, nel cuore del regno di Boko Haram.
Storie come quella di Aisha -scrive la giornalista e scrittrice nigeriana Adaobi Tricia Nwaubani sul sito della BBC – non sono così infrequenti in Nigeria. “Alcune donne liberate dall’esercito nigeriano sono tornate di propria volontà a Sambisa”.
Protagonista del racconto di Nwaubani è la psicologa Fatima Akilu, direttore della “Neem Foundation” e fondatrice del Programma governativo di de-radicalizzazione, che lavora da cinque anni con gli ex-membri di Boko Haram, compresi alcuni comandanti, le loro mogli e i loro figli. Oltre che centinaia di donne e ragazze liberate dalla schiavitù degli islamisti

Chi torna nei propri villaggi viene stigmatizzata e isolata

Chi decide di ritornare nelle mani di Boko Haram è una minoranza. Sono donne e ragazze che -per vari motivi- all’interno dei campi di detenzione hanno avuto condizioni di vita migliori, magari per aver sposato per propria scelta un miliziano. “Queste sono donne che per la maggior parte della loro vita non hanno mai lavorato, non avevano potere non avevano voce all’interno della loro comunità -spiega la psicologa- e all’improvviso si trovano a poter comandare su 30 o 100 donne”.
C’è poi un altro aspetto che va tenuto in considerazione: la stigmatizzazione che queste donne subiscono nelle loro comunità d’origine. Vengono considerate “complici” dei loro rapitori e possibili fonti di “contagio”, per questo motivo vengono isolate ed emarginate, spesso costrette a vivere in condizioni di povertà.
La de-radicalizzazione rappresenta solo un passaggio. C’è poi il ritorno nella comunità. Alcune di queste donne non hanno nessun sostegno per mantenersi quando terminano i programmi di de-radicalizzazione”, spiega la dottoressa Akilu. Questi percorsi di allontanamento da Boko Haram spesso hanno successo, ma quando le donne devono tornare nella loro comunità sono costrette ad iniziare una dura lotta per sopravvivere. Una lotta così faticosa che spesso le spinge a tornare indietro. Nella foresta.

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