Seleziona una pagina

In un “buon mese” sono circa un centinaio le donne che portano le proprie figlie e le proprie nipoti nella clinica di Halima Hirsi a Nairobi. Le famiglie arrivano in questo quartiere della capitale del Kenya, noto come “Piccola Mogadiscio”, da tutto il mondo. Soprattutto dal Regno Unito, dalla Svezia e dagli Stati Uniti. La clinica di Halima Hirsi non si trova facilmente, non ha un’insegna né una vetrina che affaccia sulla strada. Perché le madri e le nonne portano le proprie figlie e nipoti nella clinica di Halima Hirsi per praticare “il taglio“. Al costo di 150 dollari per ogni intervento. E gli affari vanno bene: a volte si presentano più di trenta “clienti” a settimana.
In Kenya le mutilazioni genitali femminili sono illegali e vietate dal 2011. Chi pratica l’intervento così come i procacciatori di clienti rischia il carcere (da un minimo di tre anni) e una multa fino a duemila dollari. Il divieto, tuttavia, non ha debellato questa pratica, che continua a essere diffusa soprattutto nel Nord del Paese e nelle aree rurali. Secondo le stime dell’ONG “28 too many” circa il 21% delle donne e delle ragazze keniane convivono con le dolorose conseguenze di questa mutilazione.

Dall’Europa al Kenia per praticare “il taglio”

La storia della clinica di Halima Hirsi è raccontata in un reportage di al Jazeera, che descrive le donne in attesa nella sala d’aspetto della “clinica”. C’è Fatima, 64 anni, che ha portato la sua nipotina di cinque anni dalla Svezia fino a Nairobi. “Sta crescendo… -spiega la donna al reporter-. Devo farlo prima di riportarla a casa”. Prima di trovare la clinica a Nairobi, Halima aveva accompagnato altre tre nipoti dal Colorado al Nord del Kenya per praticare l’intervento. Simile la storia di Khadija, 39 anni, che dall’Inghilterra ha portato la figlia di soli cinque anni. Era pronta a portarla in Somalia pur di effettuare l’intervento che voleva venisse praticato sulla sua bambina: l’infibulazione. “Pagherò qualsiasi prezzo“, ha commentato la donna.

Centinaia di migliaia di vittime non identificate

Secondo le stime delle Nazioni Unite, sono circa 200 milioni in tutto il mondo le donne e le ragazze che hanno subito una mutilazione genitale. Tuttavia, una recente ricerca pubblicata da una coalizione di associazioni (Equality Now, il network europeo “Edn FGM” e “US end FGM”) mette in luce come i numeri siano molto più elevati. I dati delle Nazioni Unite, infatti, si concentrano sulla situazione dei 31 Paesi (di cui 27 in Africa) dove l’incidenza della pratica delle mutilazioni genitali è più elevata. Ma non viene presa in considerazione la diffusione di questa pratica in molti altri Paesi.
I ricercatori hanno documentato centinaia di migliaia di casi in 92 Paesi dall’Asia al Medio Oriente, dal Nord America all’Europa. Le mutilazioni genitali femminili vengono praticate, ad esempio, all’interno della comunità Malay a Singapore (che rappresenta il 15% della popolazione locale), in Iran, in Indonesia e in India, all’interno della comunità Bohra. Le mutilazioni genitali vengono praticate anche negli Stati Uniti, in Europa e in Australia all’interno della diaspora proveniente dai Paesi cosiddetti “a tradizione rescissoria”.

In molti Paesi le mutilazioni genitali non vengono riconosciute

Secondo il report, solo negli Stati Uniti sono più di mezzo milione le donne e le ragazze che hanno subito una mutilazione genitale o sono a rischio di subire questa pratica. In Australia il fenomeno coinvolge più di 50mila donne e ragazze mentre in Europa la stima si aggira attorno a 600mila. Solo nel Regno Unito 173mila donne e ragazze hanno subito un mutilazione e più di 67mila sono a rischio.
“Mentre la maggior parte dei fondi (per il contrasto alle mutilazioni genitali femminili, ndr) sono attualmente concentrati in un numero limitato di Paesi in Africa, Asia, il Medio Oriente e l’America Latina ricevono pochissimi finanziamenti. In queste regioni, diversi governi non riconoscono ancora -e in alcuni casi negano apertamente- la presenza delle mutilazioni genitali. Minando così e talvolta screditando apertamente, il lavoro dei sopravvissuti e degli attivisti locali”, si legge nel rapporto.

Share This