“Se resti, subisci violenze. Se te ne vai, vieni ammazzata. Se vai alla polizia ti dicono che è colpa tua, si perdono i documenti del caso o arrivano troppo tardi. Se protesti, la polizia ti arresta”. Con queste parole la scrittrice e giornalista nabimbiana Martha Mukaiwa ha commentato sul suo profilo twitter la notizia dell’omicidio di una giovane donna da parte del fidanzato. Il suo tweet si concludeva con l’hashtag #OnsIsMoeg: siamo stanche.
Era il mese di ottobre 2020 e tutto il Paese era attraversato da un’ondata di proteste scatenate dall’omicidio di Shannon Wasserfall, 22 anni, da parte del fidanzato. Per settimane centinaia di giovani manifestanti (in larga parte giovani donne) sono scese in strada nella capitale Windhoek per protestare contro le violenze di genere e i femminicidi. “Le parole non riescono a esprimere realmente quanto io sia TERRORIZZATA per il fatto di essere donna in NAMIBIA“, ha scritto una giovane manifestante su Twitter accompagnando alla denuncia l’hashtag #ShutItAllDown.
“La Namibia resta una società patriarcale. La mascolinità tossica è ancorata a sistemi di valori paternalistici e condiscendenti di supremazia maschile esacerbati dagli effetti della colonizzazione”, scrive Henning Melber, professore al dipartimento di Scienze politiche all’Università di Pretoria per descrivere il paradosso di un Paese dove quasi metà delle parlamentari sono di sesso femminile e un numero crescente di donne occupano il ruolo di ministro o vice-ministro. Ma dove non ci sono stati reali cambiamenti rispetto alle politiche di genere. L’accesso all’aborto -ad esempio- è fortemente limitato solo in pochi casi le donne possono interrompere la gravidanza senza incorrere in sanzioni legali.
I dati raccolti nel report “La violenza contro i bambini e i giovani in Namibia“, realizzato nel 2020 dal ministero per l’Uguaglianza di genere, il contrasto alla povertà e il welfare, evidenziano una situazione preoccupante: “Un livello di violenza tra i bambini inaccettabile”, ha scritto la ministra Doreen Sioka nella prefazione al rapporto.
In Namibia, una bambina su tre ha subito violenze fisiche prima di aver compiuto i 18 anni. Poco più di una su dieci (il 12%) ha subito violenza sessuale. Nella maggior parte dei casi, gli autori di queste violenze sono persone note: nel 29% si tratta di un partner (fidanzati, ex fidanzati, mariti), membri della famiglia (26%) o amici (24%). Solo la metà delle giovanissime vittime di violenza ha raccontato quello che è successo, mentre una quota ancora più piccola (11%) ha cercato aiuto presso sevizi dedicati.Dal momento che nella maggior parte dei casi gli autori delle violenze conoscono le giovani vittime o appartengono alla cerchia familiare i luoghi in cui si consumano le violenze sono quelli della vita quotidiana: quasi il 60% dei casi di violenza, infatti si consumano nell’abitazione della giovane vittima (28%) oppure a scuola, all’università o al college.
“Tra coloro che hanno subito violenza sessuale durante l’infanzia -sottolinea il rapporto- una su cinque (il 21,9%) aveva meno di 13 anni”.
Per una ragazza su quindici nella fascia d’età compresa fra i 13 e i 24 anni, lo stupro, i rapporti forzati (anche all’interno del matrimonio) o le violenze subite in stato di incoscienza portano a una gravidanza. Il report inoltre evidenzia come le violenze subite durante l’infanzia espongano le ragazze a rischi maggiori di soffrire di disturbi mentali (60% contro il 44,6% di chi non è stata vittima di violenza) o di avere pensieri suicidi (32,6% contro 11,8%). Anche l’incidenza di malattie infettive (15%) è più elevata.
La foto a corredo dell’articolo è stata pubblicata dalla giornalista Julia Heita sul suo profilo twitter a un anno di distanza dalle proteste dell’ottobre 2020.