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A Milano, il mese di aprile è dedicato alle STEM, le materie scientifico-matematiche (Science, Technology, Engineering and Mathematics) con l’iniziativa “STEM in the City“. Attraverso convegni, seminari, corsi di formazione e spettacoli organizzati in tutta la città si diffonde la cultura delle STEM, per rimuovere gli stereotipi culturali che allontanano le ragazze dai percorsi di studio nelle materie tecnico-scientifiche, e quindi ridurre il divario di genere nelle carriere e nelle professioni STEM.
In occasione di questa iniziativa, vogliamo proporre a tutte le ragazze un piccolo “catalogodi donne di scienza a cui ispirarsi e da prendere come modello. Donne che hanno dovuto superare grandi difficoltà e pregiudizi, donne che a volte hanno pagato con la vita le loro scoperte, donne spesso dimenticate. Ma che con il loro lavoro hanno reso possibile la nostra vita così come la conosciamo oggi.

Ada Augusta Byron (aka Ada Lovelace)

Figlia del famoso poeta inglese George Byron e moglie di Lord William King, conte di Lovelace. Apparentemente la vita della giovane Ada, nata nel 1815, rientrava perfettamente nei canoni richiesti alle nobildonne del tempo. La madre dedicò particolare attenzione all’istruzione di Ada che, contrariamente agli usi del tempo, ebbe una forte impostazione scientifica. Ben presto Ada dimostrò un grande interesse per la matematica, era ambiziosa e tenace, avviò una fitta corrispondenza con i maggiori scienziati e matematici del tempo.
Si interessò in particolare al lavoro sulle prime “macchine analitiche”, i prototipi dei computer meccanici, sviluppati per eseguire calcoli e altri compiti generici. Tra i suoi appunti è stato rintracciato anche un algoritmo per generare i numeri di Bernoulli, considerato il primo algoritmo espressamente inteso per essere elaborato da una macchina. Ada Lovelace è spesso ricordata come la prima programmatrice di computer al mondo, ben prima che i computer venissero creati.
Grazie perché: se oggi possiamo usare un computer è, anche, merito suo

Marie e Irène Curie

La figura di Marie Curie (nata nel 1867 nella Russia zarista) è molto nota: fisica e radiochimica, fu la prima donna a vincere il premio Nobel per la Fisica (1903) assieme al marito Pierre Curie per i loro studi sulla radioattività e l’unica a vincerne un secondo (per la Chimica, nel 1911) per la scoperta del radio e del polonio. Meno nota è la figura della figlia maggiore, Iréne, che ha proseguito l’opera di ricerca scientifica dei genitori: nel 1934, assieme al marito Frédéric Joliot riuscirono a isolare alcuni elementi radioattivi e a effettuare la trasmutazione di alcuni elementi in isotopi radioattivi sintetici. Questa ricerca valse loro il riconoscimento del premio Nobel per la Chimica l’anno successivo. Irène -che era pacifista e che aveva intuito il possibile uso bellico delle ricerche condotte con il marito nella costruzione della bomba atomica- si batté contro l’uso bellico dell’energia nucleare e contro la corsa francese all’armamento atomico.
La frase: “Niente nella vita è da temere, è solo da capire. Ora è il momento di capire di più, in modo che possiamo temere meno” (Marie Curie)

Emmy Noether

Quando Emmy Noether morì, nel 1935, Albert Einstein scrisse questo necrologio sul New York Time: “A giudizio dei più competenti matematici viventi, fräulein Noether è stata il più significativo genio matematico creativo finora prodotto dal momento in cui le donne hanno avuto accesso alla formazione superiore”. Emmy Noether, sottolinea ancora Einstein, “ha scoperto metodi che si sono dimostrati di enorme importanza per lo sviluppo dell’attuale generazione più giovane di matematici”. Eppure, nonostante questi grandi talenti (la ricerca e il metodo formativo) Emmy Noether ricoprì solo il ruolo di professore straordinario e non ebbe mai una cattedra, né una vera retribuzione. Eppure, con i suoi studi ha rivoluzionato l’algebra astratta.
Grazie perché: il teorema di Noether, definito “la spina dorsale della fisica moderna” è stato la base per studi di meccanica quantistica, nello studio delle particelle elementari, nella termodinamica e per l’elaborazione della teoria della relatività di Einstein

Rita Levi Montalcini

A vent’anni decise di studiare medicina e si specializzò in neurologia e psichiatria. Durante la Seconda guerra mondiale, non potendo proseguire le sue ricerche negli istituti universitari -era di origine ebraiche- Rita allestì un laboratorio di fortuna nella casa dei genitori dove poter continuare le sue ricerche. Nel 1986 vinse il premio Nobel per la medicina per la scoperta del “Nerve growth factor”, una proteina in grado di stimolare la crescita delle cellule nervose. Si è spesa per promuovere la formazione delle giovani leve in ambito scientifico e in particolare per la parità di genere. E’ stata presidente onoraria di Terre des Hommes.
La frase: “Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla, se non la loro intelligenza”.

Jane Goodall e Dian Fossey

Nata a Londra nel 1934, fin da bambina Jane Morris-Goodall dimostra di amare il mondo animale. Non ha avuto la possibilità di frequentare l’università -a causa delle ristrettezze economiche in cui si trovava la famiglia, al termine della guerra- ma nel 1956 ha ricevuto l’invito a raggiungere un’amica in Africa. Qui, grazie all’incontro con un celebre antropologo ha iniziato a studiare la vita sociale e familiare degli scimpanzé in Tanzania. Un impegno proseguito per quarant’anni, che ha ha portato a risultati fondamentali per la comprensione del comportamento di questi animali. È considerata la più importante esperta mondiale di scimpanzé. Autodidatta era anche l’etologa americana Dian Fossey, che ha studiato per anni il comportamento dei gorilla del Rwanda. Venne uccisa nel 1985 in circostanze mai chiarite, probabilmente proprio dai bracconieri che contrastava con tutte le sue forze.

Le ragazze dell’ENIAC e le “Colored computers”

Per molti anni sono state dimenticate da tutti. Eppure senza queste donne di numeri e di scienza non avremmo avuto il primo computer della storia e non saremmo andati sulla Luna. Ma andiamo con ordine. L’ENIAC (Electronic numerical integrator and computer) era un colosso pesante 30 tonnellate, capace però di svolgere operazioni molto più complesse rispetto alle macchine di quel periodo e, soprattutto poteva essere programmato.Quando ENIAC venne terminato, sei giovani laureate in matematica vennero selezionate -tra un’ottantina di candidate- per diventare programmatrici e dovettero imparare a farlo da auto-didatte, senza manuali su cui studiare. Inoltre a quei tempi essere un programmatore non era una professione “cool” o particolarmente remunerativa. Al contrario: si pensava che le donne fossero più portate rispetto agli uomini a compiere operazioni ripetitive e di routine. E poi costavano meno.
La stessa cosa vale per il gruppo di donne afro-americane assunte alla NASA con il compito di calcolare le finestre di lancio, le traiettorie, i percorso di ritorno di tantissimi voli spaziali sino agli anni Ottanta. Mary Jackson, una delle “colored computers” della NASA, dovette chiedere il permesso da parte del comune di Hampton per frequentare i corsi universitari di matematica e fisica aperti ai soli studenti bianchi. Nel 1958 diventò la prima ingegnere aerospaziale afro-americana in forza alla NASA.
Per saperne di più: “The hidden figures” (in Italiano “Il diritto di contare”) il film del 2016 che racconta le storie della matematica, scienziata e fisica afro-americana Katherine Johnson e delle altre scienziate di colore che tracciarono la rotta dell’Apollo 11 (la missione che portò l’uomo per la prima volta sulla Luna).
Se all’interno di questo piccolo catalogo non trovate una storia in cui immedesimarvi al 100% potete continuare la ricerca in autonomia sfogliando il volume “Scienziate nel tempo” (a cura di Sara Sesti e Liliana Moro) da cui abbiamo preso spunto per alcune di queste biografie oppure sull’omonima pagina Facebook.

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