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Sono passati quasi due anni dal 14 aprile 2014, quando i miliziani di Boko Haram rapirono 276 studentesse della scuola di Chibok, nel nord est della Nigeria. Complessivamente, si calcola che dal 2012 a oggi siano circa duemila le donne e le ragazze fatte prigioniere dai miliziani, costrette a diventarne mogli e serve. Oppure combattenti e persino inconsapevoli bombe umane.
Alcune sono riuscite a scappare, altre sono state liberate dai soldati dell’esercito nigeriano. Tutte, dopo gli abusi e le sofferenze patite durante la prigionia, hanno dovuto fare i conti con un ritorno a casa traumatico: “Le donne del campo profughi di Dalori, dove sono andata dopo essere stata liberata dall’esercito, mi chiamavano la moglie di Boko Haram. Alcune mi hanno persino picchiato”, racconta Aisha giovane camerunense rapita da Boko Haram. Costretta a sposare un miliziano, ha dato alla luce un bambino durante la prigionia.
L’associazione “International Alert” ha lanciato la campagna #FutureForOurGirls per sostenere le ragazze durante il loro faticoso ritorno in famiglia e nelle comunità di appartenenza. Il fatto di essere vittima di violenze sessuali e il timore che queste donne e ragazze possano essere radicalizzate dai fondamentalisti islamici durante la prigionia – infatti – le condanna all’esclusione sociale. Una situazione di marginalizzazione già denunciata nel rapporto “Bad blood” di cui avevamo parlato anche sul blog.
Timori e sospetti circondano anche i bambini nati a seguito delle violenze subite dalle giovani, esponendoli a rischio di discriminazioni e violenze. “Mentre sempre più donne e ragazze stanno tornando dalla prigionia, lanciamo un appello alla comunità internazionale e al governo nigeriano. Chiediamo uno sforzo maggiore per reinserire queste donne nella società e garantire loro la possibilità di rifarsi una vita. Per sé stesse e per i propri figli”, chiede Kimairis Toogood, co-autore del rapporto “Bad blood”.
Internarional Alert ha lanciato dei progetti di sostegno rivolti alle donne fuggite da Boko Haram in collaborazione con Unicef e alcuni partner locali: workshop e momenti di confronto in cui le donne possono parlare liberamente della propria esperienza. Inoltre l’associazione lavora per ridurre lo stigma e preparare le comunità ad accogliere di nuovo le ragazze, lavorando in modo particolare con le autorità religiose.
L’obiettivo, è evitare che queste giovani donne si ritrovino a essere doppiamente vittima.

Aisha aveva solo 17 anni quando Boko Haram ha fatto irruzione nella sua vita. Viene rapita e costretta a sposare uno dei miziani. “Mi sentivo persa, sentivo che quegli uomini mi avevano rovinato la vita e che nessuno si sarebbe più preso cura di me”, spiega. A seguito delle violenze subite resta incinta, ma il rapporto con il figlio non è facile: “Lo odiavo”, spiega. Solo grazie alla levatrice che la aiuta durante il parto, la giovane impara ad amare il bambino: “Lei mi ha convinto ad accettare il fatto che il bambino è innocente”.
La fortuna di Aisha è stata quella di entrare in contatto con Fomwan, una delle associazioni partner di “Inernational alert”. Per la prima volta la ragazza si sente protetta e accolta in un ambiente che non la giudica ma, al contrario, le permette di esprimere i propri sentimenti. La possibiltà di parlare liberamente di quanto accaduto, di accettarlo e di andare avanti con la propria vita.
Durante i primi tre mesi del progetto, l’associazione ha realizzato otto workshop, entrando così in contatto con 240 ragazze e donne sopravvissute a Boko Haram. L’obiettivo è di realizzarne altri in modo da raggiungere un totale di 320 sopravvisuti entro la fine di aprile 2016. Ma ancora non basta per dare una risposta ai grandi bisogni delle sopravvissute. “Così come non siamo sicuri del numero esatto di quanti sono ancora prigionieri, non conosciamo esattamente la vastità di questo fenomeno. Ma sappiamo che il numero è molto grande – conclude Kimairis Toogood -. Ipotiziamo che migliaia di persone abbiano bisogno di aiuto. Sia le sopravvissute, sia le comunità dove vivono”.

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