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A partire dal 2013, l’esercito nigeriano ha arrestato e incarcerato migliaia di minori -in alcuni casi anche bambini di appena cinque anni- sospettati di avere legami con il Boko Haram ma avendo poche o nessuna prova del loro effettivo legame con il gruppo terroristico. È la denuncia contenuta nel report “They didn’t know if I was alive or dead” (“Non sapevano se fossi vivo o morto”) con cui l’ong Human Rights Watch fotografa il preoccupante aumento della detenzione per periodi prolungati di bambini e bambine accusati di essere sostenitori di Boko Haram. Arresti avvenuti spesso senza prove, senza una formale imputazione da parte di un giudice, senza dare ai minori la possibilità di incontrare un avvocato o di contattare i propri genitori.
Secondo le stime delle Nazioni Unite tra gennaio 2013 e marzo 2019, l’esercito nigeriano ha imprigionato più di 3.600 bambini e ragazzi (di cui 1.617 bambine e ragazze) sospettati di essere complici di Boko Haram. Il numero dei bambini detenuti sarebbe calato drasticamente nel 2018: dopo il picco di 1.900 unità registrato nel 2017, si è scesi a 418 baby detenuti nel 2018. Ma né le Nazioni Unite, né Human Rights Watch hanno avuto modo di accedere alle carceri militari per verificare i numeri e le condizioni di detenzione dei minori.
Il report di HRW si basa sulle interviste fatte dai ricercatori a 32 minori dopo il loro rilascio. Dai loro racconti emergono l’arbitrarietà degli arresti (ad esempio per aver venduto cibo ai miliziani), la mancanza o l’estrema lacunosità delle prove. Paradossalmente, diversi minori raccontano di essere stati arrestati mentre fuggivano dal loro villaggio dopo un attacco di Boko Haram. Altri, invece, sono finiti in carcere dopo essere fuggiti da Sambisa, l’impenetrabile foresta nel Nord-Est della Nigeria dove si trovano le basi del gruppo terroristico islamista.

L’incubo delle bambine: dai matrimoni forzati al carcere

Quasi la metà dei minori detenuti a Giwa (il carcere militare oggetto dell’inchiesta di HRW) sono bambine e ragazze, alcune delle quali giovanissime. Molte di loro sono due volte vittime: prima dei miliziani di Boko Haram, poi dei militari dell’esercito che le hanno messe in carcere dopo la fuga o la liberazione dai loro primi carcerieri.
A Giwa, le donne e le ragazze erano rinchiuse in un’unica cella, come racconta Rashida, che è stata detenuta per nove mesi quando aveva appena 12 anni. “Nella mia cella c’erano molte altre ragazze che avevano circa la mia età e c’erano anche donne con bambini”, spiega. La cella era affollata, donne e ragazze costrette a vivere in spazi ristretti con una sola toilette nemmeno molto funzionante. “Non potevamo fare molto in cella -ricorda ancora la ragazza-. Non potevamo uscire dalla cella se non per gli interrogatori. Ci intrecciavamo i capelli l’un l’altra e guardavamo la tv”. Sebbene le autorità militari avessero vietato le relazioni tra i soldati e le giovani donne, alcune testimoni intervistate da HRW hanno riferito il loro sospetto che i militari sfruttassero le giovani donne, costringendole ad avere rapporti sessuali: “Alcune donne sono rimaste incinte mentre erano in cella e alcune hanno partorito”, ricorda Halima 14 anni.
“Molte delle ragazze detenute erano state rapite da Boko Haram e costrette a sposare i miliziani.Anche dopo la loro fuga, invece di lasciarle tornare delle loro famiglie, l’esercito nigeriano le ha sbattute in carcere in quanto sospettate di essere membri di Boko Haram” spiega Jo Becker, ricercatore e autore dell’indagine.

Ottomila i minori rapiti da Boko Haram

Secondo le stime delle Nazioni Unite, sarebbero almeno 8mila i minori rapiti da Boko Haram e costretti con la forza a unirsi alle sue fila: i maschi come combattenti, cuochi, porta ordini, guardiani; le femmine come spose coatte e talvolta come kamikaze nei mercati. Safiya è stata catturata da Boko Haram quando aveva solo 12 anni (era il 2012). Sei mesi dopo il suo rapimento è stata data in sposa a un comandante del gruppo: “Ho accettato di sposarlo invece di soffrire, anche se immaginavo che un giorno mi avrebbero ucciso”, racconta la ragazza, costretta a diventare la quarta moglie di un uomo molto più grande di lei. Il marito di Safiya ha anche insegnato alla giovane moglie a pulire e usare una pistola (“Ho sparato molte volte, ma non ho mai ucciso nessuno”, racconta) e per tre volte alla ragazza è stato data una bomba da far esplodere in un attacco suicida. “Sono sempre tornata indietro senza farla esplodere. Ogni volta che ritornavo, mi dicevano che non avevo abbastanza fede e che avrei dovuto tornare alla Scuola coranica di Sambisa per studiare e rinforzare la mia fede”.

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