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Ilaria Cinelli, 35 anni, laureata in ingegneria biomedica, si presenta come analog astronaut (un termine che in italiano si può tradurre con “astronauta analogo”), ovvero colui che simula (sulla Terra) una serie di attività che verranno poi svolte dagli astronauti nella stazione spaziale internazionale, sulla Luna e forse, in futuro, anche su Marte. Ma per Ilaria, quello di analog astronaut vuole essere solo un ruolo temporaneo: il suo obiettivo è quello di diventare un’astronauta al 100%. “Non è una questione di ‘se’ ma di ‘quando’ -spiega-. Ma prima di arrivare a quel punto devo acquisire sempre più competenze, e fare sempre più esperienza come pilota, come diver, ma anche all’interno di contesti di emergenza per acquisire sempre più familiarità con queste situazioni. Oltre alle simulazioni in ambiente estremo”.

Per otto volte sei stata scelta come comandante di missioni spaziali simulate presso il Mars desert research station nel deserto dello Utah (Stati Uniti) a capo di un team internazionale che per alcune settimane ha sperimentato condizioni di vita e lavoro “marziane”. Quali sono gli obiettivi di queste missioni e quale è stato il tuo ruolo?
Si simulano le attività che gli astronauti metteranno poi in pratica nello spazio: quelle a cui ho partecipato io erano specifici per la Luna e, soprattutto, per Marte. Le missioni sono molto diverse l’una dall’altra: prepararle e organizzarle richiede sempre molto tempo e molto lavoro. Abbiamo sempre una routine di cose da fare, viene quindi stabilito un piano giornaliero, con tutti gli esperimenti da condurre per simulare sulla Terra esperienze e situazioni che poi gli astronauti vivranno su Marte. Il mio compito è quello di allenare i team e, in qualità di comandante ho dovuto imparare molto proprio sulla leadership: ero responsabile 24 ore su 24 della salute e della sicurezza di tutti.

Quando è nato il desiderio di dedicarti allo studio delle materie scientifiche?
Fin da piccola ho sempre avuto un grande interesse per la medicina. A scuola, già alle elementari, amavo la matematica e la scienza perché avevano una logica che potevo capire e che mi dava gli strumenti necessari per comprendere i fenomeni naturali: da quello che succede nel giardino di casa, alla traiettoria di una palla lanciata in aria fino al funzionamento corpo umano. La matematica e la scienza mi hanno aperto la mente, mi hanno spinto a pormi domande. Poi ho scoperto la fisica alle superiori… e non mi sono più fermata.

Perché la scelta di ingegneria biomedica all’università?
Da un lato volevo studiare una materia che avesse a che fare con il corpo, perché è qualcosa che mi affascina: volevo capire perché e come si sviluppa una patologia, quali sono le conseguenze e quale avrebbe potuto essere il mio ruolo. Però il momento della scelta dell’università arriva in un periodo della vita in cui si è ancora giovani: io non sapevo se sarei stata in grado di gestire alcuni aspetti del lavoro come medico, ad esempio la morte di un paziente. E poi avrei dovuto mettere da parte la fisica, che è la mia grande passione. Ingegneria biomedica mi ha dato la possibilità di portare avanti tutte le mie passioni: quando ho potuto dedicarmi solo ai numeri, alla scienza, alla fisica mi sono sentita veramente libera.

La passione per lo spazio invece come è arrivata?
Man mano che proseguivo con gli studi di ingegneria biomedica ho iniziato a chiedermi sempre più spesso che cosa sarebbe successo se le procedure che applicavamo e i macchinari che utilizzavamo si fossero trovati in una condizione di assenza di gravità. Questa domanda è diventata per me un’ossessione, un’ossessione positiva che ha alimentato la mia passione per lo spazio. Scelsi di fare la tesi in fisiologia spaziale e mi sono specializzata al King’s College di Londra.

Quali sono le principali difficoltà che una giovane donna deve affrontare per intraprendere questo percorso sia di studi sia lavorativo?
Durante la crescita arriva un momento in cui capisci che maschi e femmine sono diversi, e questo è normale. Al tempo stesso, però, capisci anche che l’uomo ha molte possibilità in più rispetto alla donna, che ha meno limiti. E questa distanza diventa sempre più evidente man mano che si cresce. Se sei donna ti viene richiesto di rappresentare il tipo di persona che ha mille insicurezze, che non sarà mai all’altezza della situazione (a differenza degli uomini), che si mette sempre in discussione e questo genera un’ansia che attraversa tutto il processo formativo: come se una donna non potesse mai essere all’altezza di quello che fanno gli ingegneri maschi. Per me la parte più difficile è stata proprio spezzare questa associazione e per farlo sono andata alla ricerca di punti di riferimento a cui mi potevo ispirare per spezzare questo modello.
Se ti viene detto fin da piccola che arriverà il principe a salvare la principessa, tu da grande ti aspetterai di essere salvata: e questo è nocivo, soprattutto in alcuni settori. Quando faccio lezione ci tengo a far capire che tutti abbiamo le stesse opportunità e la stessa capacità di avere successo. Quello che cambia, tra i due generi, è solo l’approccio. La strada per uscire da questa situazione, per me, è stata quella di circondarmi di persone dal carattere molto forte, determinato, tra cui figure femminili che potessero aiutarmi a maturare quella confidenza che sentivo era necessaria per diventare un’adulta.

Chi ti ha incoraggiato durante gli anni della formazione?
Il mio percorso di studi è stato molto particolare. Per questo, anche per le persone più vicine a me non è stato sempre facile capire le motivazioni di alcune scelte, che potevano apparire come una semplice passione temporanea e che mi hanno portato a cambiare strada durante gli anni dell’università. Io me la sono sudata, ho creduto in quello che stavo facendo perché mi rendeva felice. Ma non è stato facile. Penso che mi sia mancato, soprattutto all’inizio, la comprensione del perché stessi facendo determinate scelte. Oggi, quando tengo sessioni di mentoring ai più giovani insisto tantissimo sull’incoraggiamento. Bisogna incoraggiarli ad assumersi delle responsabilità a superare gli ostacoli quando si sentono pronti a farlo, perché questo li aiuta a maturare e crescere nelle loro professioni, a prescindere dal settore in cui lavorano. Una persona confident, sicura di sé, quando viene incoraggiata può fare tanto e dare tanto alla società.

In che modo si incentiva una bambina o una ragazza a immaginarsi un futuro professionale come astronauta?
Credo si debba partire dall’educazione. Spezzando quei luoghi comuni e quegli stereotipi che associano le ragazze e le donne quasi esclusivamente ad alcuni ambiti professionali: parrucchiera, cassiera o estetista. Lo stesso non vale per i ragazzi che possono immaginarsi, nel loro futuro professionale, anche come parrucchieri o ginecologi. Se i genitori dicono alla figlia, fin da quando è piccola, che potrà diventare medico, ingegnere o astronauta questo è già un ottimo punto di partenza e magari quella bambina diventerà medico, ingegnere o astronauta se quelle sono le sue passioni e i suoi interessi. Resta però il fatto che quella bambina dovrà crescere in un contesto in cui le donne -penso soprattutto a quello che succede in certi programmi televisivi- vengono trattate come oggetti decorativi. Se veramente vogliamo arrivare alla parità di genere nel 2030 ci sono tante cose ancora da cambiare nel nostro Paese.

Puoi indicarmi una o due figure di donne che secondo te possono rappresentare un modello per una ragazza che frequenta le scuole superiori?
Non penso che “assegnare” un modello sia utile. Le bambine e le ragazze devono essere stimolate a cercare da sole quelli che sono i modelli a cui si vogliono ispirare. Un modello come quello, ad esempio, di Rita Levi Montalcini rischia di essere troppo lontano: una ragazza di oggi rischia di non sentirlo mai veramente “suo” perché c’è un gap enorme tra il suo presente e la storia della scienziata. E, di conseguenza, non riesca ad apprezzarlo pienamente.
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