Seleziona una pagina

Nelle stesse ore in cui i giudici di Minneapolis pronunciavano la sentenza di condanna contro l’agente di polizia Derek Chauvin per la morte di George Floyd, a Columbus, in Ohio, una ragazza di appena 16 anni veniva uccisa con quattro colpi d’arma da fuoco da un altro agente di polizia.
Ma’Khia Bryant era un’adolescente afroamericana e, secondo quanto hanno ricostruito i media statunitensi, era affidata ai servizi sociali. La polizia era intervenuta a seguito di una chiamata al 911 (il numero unico di emergenza degli Stati Uniti, ndr) in cui una giovane chiedeva aiuto perché minacciata da un’altra donna con un coltello. Le immagini della bodycam indossata dall’agente di polizia durano pochi minuti e sono caotiche: si vede una ragazza armata di coltello lanciarsi su un’altra, si sentono urla. L’agente intima alla ragazza di gettare il coltello. Lei non lo fa. Il poliziotto spara quattro volte e la ragazza cade a terra. Ma’Khia Bryant viene rianimata sul posto e poi trasportata in ospedale, dove viene dichiarata morta circa mezz’ora dopo.
Fin qui la tragica ricostruzione di un evento drammatico. E che, purtroppo, ricorre troppo spesso nelle cronache che arrivano dagli Stati Uniti. Sul suo profilo Twitter, l’American Civil Liberties Union (ACLU – una delle più note organizzazioni non governative impegnate nella difesa dei diritti civili negli USA) ha scritto: “Per la seconda volta in meno di una settimana piangiamo un bambino ucciso dalla polizia. Lo diciamo di nuovo: un sistema in cui i bambini vengono uccisi impunemente non può essere riformato”. Poche ore dopo la morte di Ma’Khia Bryant centinaia di attivisti di Black Lives Matter hanno marciato per le strade di Columbus scandendo il nome e l’età della giovane vittima.

Una ragazza o una giovane donna?

Un articolo pubblicato su “The Lily” una testata edita dal Washington Post che si rivolge soprattutto alle giovani donne, solleva un altro elemento critico su questa vicenda e, più in generale, sui modi con cui la società statunitense guarda alle adolescenti afro-americane. L’articolo prende spunto da un post pubblicato su Twitter dal sindaco di Columbus che ha commentato la notizia della morte di Ma’Khia Bryant definendola “una giovane donna” (in inglese “young woman“). Nel volgere di pochi minuti è stato sommerso da risposte di decine di altri utenti e molti tweet in cui si sottolineava che Ma’Khia è una ragazza (“a girl“).
Secondo l’autrice dell’articolo Ma’Khia Bryant è stata vittima di “adult bias“, ovvero “una forma di discriminazione che colpisce solo le ragazze nere, che vengono percepite come più adulte e molto meno innocenti rispetto alle loro coetanee bianche”.

“Meno innocenti” e più adulte, come sono viste le ragazze afro-americane

Il tema è al centro di uno studio pubblicato dal “Georgetown Law Center on Poverty and Inequality” che nel 2017 ha sottoposto un questionario a un gruppo di adulti diversi tra loro per genere, età e gruppo etnico di appartenenza. Le loro risposte hanno rivelato come i partecipanti percepiscono le adolescenti afro-americane come meno bisognose di protezione e supporto rispetto alle loro coetanee bianche, oltre che più indipendenti. Ma anche come più “informate su argomenti da adulti e più competenti in materia di sesso rispetto alle loro coetanee bianche”. Una percezione distorta che inizia a manifestarsi già a partire dai cinque anni di età delle bambine afro-americane. Se le autorità pubbliche -continuano gli autori dello studio- considerano le ragazze nere “meno innocenti” e più adulte rispetto alle loro coetanee è più probabile che le considerino anche maggiormente colpevoli per le loro azioni. E, di conseguenza, più meritevoli di punizioni.

Più punizioni a scuola e più guai con la giustizia

Questo “bias” che vede le ragazze afro-americane come più adulte “può essere una delle cause della sproporzionata disciplina scolastica, del trattamento più duro da parte delle forze dell’ordine e della discrezionalità dei funzionari all’interno del sistema della giustizia minorile”, si legge nella ricerca. Qualche numero: nei 12 anni di scuola che vanno dalla prima elementare all’ultimo anno della scuola superiore le bambine e le ragazze di colore sono l’8% del totale degli studenti. Ma rappresentano il 13% degli studenti che hanno avuto una sospensione. In caso di “minor violation” (ad esempio per aver violato il codice di abbigliamento della scuola o per uso del cellulare) le ragazze di colore vengono punite il doppio rispetto alle coetanee bianche. Due volte e mezzo di più in caso di disobbedienza e tre volte di più in caso di rissa.
La stessa discrepanza si riscontra quando le ragazze entrano nel sistema della giustizia minorile: nei confronti delle giovani afro-americane la giustizia è più dura e ci sono meno possibilità di contare sulla discrezionalità del giudice.

“Non fare la bambina”

Un’altra recente vicenda di cronaca viene ricordata da “The Lily” come esempio di questo bias cognitivo nei confronti delle bambine e delle ragazze afro-americane. A febbraio 2021 la polizia di Rochester (New York) è intervenuta a seguito di una segnalazione: una bambina minaccia di fare del male a sé stessa e alla madre. Nelle immagini diffuse successivamente si vede la bambina (di appena nove anni e probabilmente in preda a una crisi psichiatrica) che viene ammanettata e poi costretta a salire sulla volante: ma lei piange e chiama il padre. Cerca di opporsi, uno degli agenti le dice: “Non comportarti da bambina“.
“Ma io sono una bambina”, risponde.
Per porre fine alle sue proteste, un agente le spruzza in viso uno spray urticante al peperoncino.
Per Rebecca Epstein, direttrice esecutiva del Center on Poverty and Inequality della Georgetown University e co-autrice dello studio siamo di fronte “a una deumanizzazione delle ragazze afro-americane che dovrebbero ricevere trattamenti sanitari mentre invece vengono punite duramente”.

Share This