Lo scorso dicembre, l’attivista Christine Ghati Alfons si è recata in una scuola di Migori County, un’area impoverita nel Sud-Ovest del Kenya per un incontro dedicato all’igiene mestruale. Il suo pubblico avrebbe dovuto essere formato da circa 25 studentesse di età compresa tra i 10 e i 15 anni. Ma quel giorno, solo 17 si sono presentate. “Abbiamo perso alcune di queste ragazze”, ha commentato ai microfoni della radio pubblica statunitense NPR Ghati Alfons, fondatrice della “Safe Engage Foundation”, un’associazione che combatte le mutilazioni genitali femminili (MGF). La donna ha riferito che le ragazze mancanti avevano subito “il taglio”, due di loro si erano già sposate mentre le altre erano a casa, in convalescenza, per riprendersi dal trauma del brutale intervento. Altre nove ragazze, che invece erano presenti in classe, erano state mutilate nei mesi precedenti.
Le conseguenze del Covid per le ragazze
Non ci sono ancora dati precisi, ma le testimonianze di attivisti raccolte in questi mesi da parte di diversi media e associazioni concordano su un fatto: l’epidemia di Covid 19, i provvedimenti presi per contrastare la diffusione del contagio, il lockdown e la crisi economica causata dal virus stanno facendo aumentare il numero delle giovani vittime di mutilazioni genitali femminili. Mettendo a rischio il lavoro svolto da attivisti e associazioni in questi anni.
Il Covid 19 ha creato la “tempesta perfetta” favorendo coloro che vogliono portare avanti a tutti i costi la pratica delle mutilazioni genitali: da un lato la chiusura delle scuole che ha costretto migliaia di ragazze vulnerabili a restare a casa senza poter contare sulla protezione offerta dai loro insegnanti, dall’altro le associazioni e le attiviste sono state costrette a rispettare coprifuoco e limiti negli spostamenti. A tutto questo si aggiunge un ulteriore elemento che, con ogni probabilità, si farà sentire ancora a lungo: il taglio dei fondi pubblici destinati al contrasto delle mutilazioni genitali, utilizzati per coprire altre spese necessarie per limitare la diffusione del Covid 19.
La situazione è particolarmente grave nei Paesi più poveri e, più in generale, tra le famiglie che appartengono alle fasce sociali più disagiate che hanno perso lavoro e reddito a causa del Covid. In Paesi come il Kenya, combinare un matrimonio per le proprie figlie rappresenta per molte famiglie un modo per sopravvivere, grazie alla dote pagata dallo sposo. “Queste ragazze non solo subiranno il ‘taglio’ ma saranno anche costrette a sposarsi. E una ragazza ‘tagliata’ ha più valore. La pratica della mutilazione viene vista come un investimento sulla ragazza e sul suo successo di trovare un marito”, spiega Nimco Ali, attivista nata nel Somaliland e sopravvissuta alle mutilazioni genitali che oggi vive a Londra, dove dirige la “The five foundation”.
Due miliardi di euro per i prossimi dieci anni
Secondo le stime di Unicef e di Unfpa (l’agenzia delle Nazioni Unite per la popolazione) nei prossimi dieci anni potrebbero verificarsi due milioni di casi in più di mutilazioni genitali femminili. “Dobbiamo finanziare i nostri sforzi a un livello pari al nostro impegno. Anche in paesi in cui le mutilazioni genitali femminili stanno già declinando, i progressi devono aumentare di dieci volte per raggiungere il target globale di eliminare la pratica entro il 2030. Questo richiederà circa 2,4 miliardi nei prossimi 10 anni, che corrisponde a meno di 100 dollari per ragazza” si legge nella dichiarazione congiunta del direttore generale dell’Unicef Henrietta Fore e del direttore generale dell’Unfpa Natalia Kanem in occasione della Giornata di tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili.
L’OMS ricorda che sono più di 200 milioni le donne e le ragazze che oggi vivono con le conseguenze del “taglio”. La prassi, che spesso viene tramandata di madre in figlia, viene difesa da molte comunità in quanto elemento della cultura locale e in molti casi rappresenta un pre-requisito per il matrimonio. L’Organizzazione mondiale per la sanità e tutte le associazioni impegnate per la difesa dei diritti delle donne ribadiscono con forza che le mutilazioni genitali femminili sono una violazione dei diritti umani di donne e ragazze. Inoltre, questi interventi vengono spesso praticati in condizioni assolutamente inadeguate e possono portare alla morte delle bambine per emorragia o infezione. Anche quando l’intervento viene praticato in ambito medico (e quindi con maggiori tutele dal punto di vista sanitario, una pratica sempre più diffusa in Paesi come l’Egitto) il danno che provoca è immenso: cisti, infezioni, problemi alle vie urinarie, difficoltà e dolore durante i rapporti sessuali oltre al rischio di complicazioni durante il parto che possono costare la vita a mamma e nascituro.
LA SCUOLA NELLA FORESTA – TRAILER from Zona on Vimeo.
La scuola nella foresta
Per quanto riguarda la lotta alle mutilazioni genitali femminili, il 2020 ha portato anche una buona notizia: il 30 aprile il governo di transizione del Sudan ha approvato una legge che mette al bando le mutilazioni genitali femminili. Chi le pratica ora rischia fino a tre anni di carcere. Formalmente, in 22 Paesi africani (sui 28 in cui vengono praticate) le mutilazioni genitali sono vietate per legge. Fanno eccezione Ciad, Mali, Sierra Leone, Somalia e Liberia.
Proprio quest’ultimo Paese è al centro del documentario “La scuola nella foresta” della giornalista Emanuela Zuccalà che racconta la potentissima società segreta femminile chiamata “Sande” e considerata custode delle tradizioni degli avi. Il “taglio” rappresenta il rito d’accesso alle “scuole nella foresta” della setta (peraltro regolarmente riconosciute dallo Stato) dove le bambine imparano danze e canti tradizionali, il rispetto degli anziani e le mansioni future di mogli e madri. Restando, però, totalmente analfabete.
L’influenza politica della Sande ha bloccato qualsiasi tentativo da parte della società civile di mettere al bando le mutilazioni genitali femminili. “La Liberia è stato il primo Paese africano ad avere una presidente donna, Ellen Johnson Sireleaf, ma nemmeno lei è riuscita farcela -spiega Emanuela Zuccalà-. Ha ottenuto solo un bando temporaneo di un anno. Mentre nel resto dell’Africa i movimenti hanno fatto importanti passi avanti, in Liberia le attiviste hanno paura o sono minacciate”. Il documentario dà voce a tre attiviste liberiane che rischiano la vita per il loro coraggio di opporsi a “Sande”. Donne come Mary, 29 anni, che ha parte di un gruppo di auto-aiuto per le ragazze che rifiutano di entrare nella società segreta ed essere mutilate. Per questo, Mary è stata minacciata ed è stata ripudiata dai genitori per il suo rifiuto di frequentare la “scuola nella foresta”.
Il documentario “La scuola nella foresta” sarà visibile nel cinema virtuale di Distribuzioni dal basso fino alla mezzanotte di domenica 7 febbraio.
Per la foto si ringraziano Emanuela Zuccalà, regista del documentario “La scuola nella foresta” e Valeria Scrilatti